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Immagine del redattoreBeatrice Piermartini

Il cervello dell’adolescente

Aggiornamento: 11 apr

Le ricerche neuroscientifiche degli ultimi decenni forniscono un’informazione molto

precisa: il cervello degli adolescenti, contrariamente a quanto si pensava in passato, è diverso da

quello dei bambini e da quello degli adulti e presenta una grande plasticità (Blakemore, 2018;

Steinberg, 2017). Fino ad alcuni decenni fa, la neurologia riteneva che il cervello, a partire dai 12

anni, rimanesse immutabile per il resto della vita. Oggi sappiamo che continua a svilupparsi tra i 13

e i 19 anni e anche dopo i 20 (Blakemore, 2018), senza peraltro perdere mai la sua plasticità, cioè la

sua capacità di cambiare in rapporto all’esperienza (Edelman, 1991; Doidge, 2007, 2015). Sebbene

raggiunga la sua dimensione massima intorni ai dieci anni, per tutta l’adolescenza continua a

riorganizzarsi e a mantenere una grande malleabilità, paragonabile a quella relativa ai primi tre anni

di vita (Steinberg, 2017). La scoperta della grande plasticità cerebrale in adolescenza ha grandi

implicazioni nel modo in cui genitori, insegnanti, educatori e psicologi operano con i giovani.

Lawrence Steinberg (2017) della Temple University in Pennsylvania, uno dei più autorevoli

studiosi dell’adolescenza, ha affermato che la grande sensibilità del cervello adolescente

all’ambiente rende necessario essere molto premurosi e attenti alle esperienze che offriamo agli

adolescenti. In una sua importante ricerca (Steinberg et al., 2017), che ha coinvolto 5000 giovani

volontari di 11 paesi diversi 1 , si è focalizzata sulla ricerca di emozioni in esperienze nuove da parte

degli adolescenti e sulla loro capacità di autoregolazione. Lo studio ha coinvolto ragazzi di un’età

compresa fra gli 11 e i 30 anni ai quali è stato chiesto di svolgere una serie di prove sperimentali e

di rispondere a dei questionari, incentrati sul desiderio di provare emozioni nuove, collegate anche

ad esperienze rischiose e sull’autoregolazione, vale a dire la capacità di controllarsi e di prendere

delle decisioni. Seppure con differenze all’interno dei diversi Paesi, è stato possibile individuare

delle somiglianze nello sviluppo delle due dimensioni indagate. La ricerca di emozioni andava

incontro ad un incremento a partire dai 10 anni, con un picco a 19 anni, per subire un calo dai 20

anni in poi. Per quanto riguarda l’autoregolazione, aumentava in modo stabile dai 10 fino a oltre i

20 anni, dopodiché si stabilizzava.

Steinbeck ha mostrato come lo sviluppo cerebrale in questa fase della vita sia, per certi

aspetti, contraddittoria: se da un lato la corteccia prefrontale che media la riflessione, il senso di sé,

la capacità di “pensare il pensiero” e altre funzioni superiori, conosce un grande sviluppo, al

contempo, le strutture limbiche sottocorticali, che mediano i comportamenti impulsivi, sono più

attive rispetto a tutte le altre fasi della vita (Modello dei Sistemi Duali, Steinbeck, 2017). La

sensibilità delle strutture sottocorticali può spiegare la maggiore propensione al rischio e agli acting

1 Cina, Colombia, Cipro, India, Italia, Giordania, Kenya, Filippine, Svezia, Thailandia e Stati Uniti

out e il forte sviluppo della corteccia prefrontale porta invece a pensare che l’adolescenza sia

un’occasione importante da cogliere per aiutare l’individuo a cambiare.

In questa fase della vita, dal pensiero concreto che aveva caratterizzato gli anni della scuola

primaria, l’adolescente diventa capace di riflettere sui propri pensieri, sulle cause delle sue azioni e

sulla possibilità di mettere in atto comportamenti diversi (Siegel, 2014).

In altre parole, si sviluppa e al contempo può essere sviluppata la capacità di pensare i propri

sentimenti, i propri pensieri, le proprie emozioni e rappresentazioni, aspetti fondamentali della

costruzione dell’identità, quindi del senso di chi si è, differenziato dall’altro.

Identificazione delle emozioni e identità

Il lavoro con gli adolescenti che presentano un disturbo ansioso si configura, dunque, come

un processo di regolazione emotiva che ha la funzione di lenire e modulare gli stati emotivi

disregolati, identificati come ansia. Si tratta di un viaggio complesso durante il quale il paziente e il

terapeuta incontrano il copione, con i messaggi ingiuntivi e controingiuntivi, trovano un senso di

insicurezza che, talvolta, appare ontologico, profondamente legato al permesso di esistere e di

essere come si è…

Talvolta, soprattutto nelle fasi iniziali del lavoro con l’adolescente, possono essere d’aiuto esercizi

strutturati che favoriscono la mentalizzazione (Fonagy et al., 2002; Clarkin, Yeomans & Kernberg,

2011) e l’alfabetizzazione con le proprie emozioni, spesso esuberanti e dalle tinte forti (regolazione

secondaria).

Di seguito, un esempio di esercizio strutturato che può essere svolto nella terapia con gli

adolescenti. Altri esercizi sono consultabili in Appendice.

• Ripensa all’ultima giornata trascorsa

• Chiudi gli occhi e torna lì

• Soffermati su un momento che colpisce di più la tua attenzione

• È piacevole o spiacevole?

• Domandati cosa hai provato in quel momento, facendo riferimento alle emozioni di base:

rabbia, paura, tristezza, gioia, disgusto, sorpresa…

• Dai un nome a ciò che hai sentito

• Ascolta anche i pensieri che hai fatto e le sensazioni corporee che hai provato

• Quale significato puoi dare a ciò che hai provato e a ciò che hai pensato?

(Piermartini, 2018)

Lo scopo di questo semplice esercizio, che può essere proposto anche in forma scritta, è quello di

favorire un allenamento della capacità di dare un nome a ciò che sentiamo. Nella storia dell’uomo,

il dare un nome alle cose, ai fenomeni, ha rappresentato un passo evolutivo fondamentale: ciò che è

noto, ciò che è nominato fa meno paura di ciò che non conosciamo affatto.

Gli esercizi pratici assolvono una pluralità di funzioni: forniscono struttura e direzione,

contribuiscono a rafforzare le capacità mentali, ad aumentare la flessibilità del pensiero e a stabilire

un contatto con il proprio mondo interno. Rappresentano un lasciapassare che ci permette di entrare

nel mondo dell’adolescente e a lui di farsi gradualmente vedere. Spesso, attraverso il lavoro

strutturato, il mondo emotivo si fa più accessibile e comunicabile. L’adolescente è meno esposto ad

uno sguardo intrusivo e invadente che l’adulto-terapeuta immette nel suo mondo interno. Il suo

bisogno, infatti, è sì quello di lenire l’ansia e stare meglio, ma anche quello di crescere e

differenziarsi mettendo utili e necessari confini.

Gli esercizi rappresentano una riflessione guidata passo dopo passo per facilitare la riflessione e la

metariflessione. La finalità è quella di favorire il contatto con se stessi, “trovando” le emozioni di

base che si agitano nel mare dell’ansia e che, una volta identificate, possono diventare la bussola

attraverso la quale orientarsi nel marasma delle scelte e delle possibilità.

L’identificazione delle emozioni favorisce e rende possibile l’autoconoscenza dal momento che

sapere ciò che si sente è parte della conoscenza di sé (Jurist, 2018).

L’etimologia della parola “identificare” deriva dal latino idem-fieri, divenire il medesimo,

considerarsi uguale (Jurist, 2018) e, oltre all’assegnazione di un nome, comporta un senso di

immedesimazione e di curiosità che può esitare nell’esplorazione. In tal senso, è utile notare che

l’etimologia del termine “identificare” è connessa al termine “identità” (Jurist, 2018).

Prove di identità e relazione terapeutica

Man mano che l’adolescente discrimina e nomina le emozioni, scopre anche desideri,

bisogni e il lavoro fatto insieme diventa una rassicurante conoscenza di sé.

Talvolta, il lavoro di identificazione delle emozioni diventa l’occasione per parlare di ciò che ha più

evidenza nel mondo interno in quel momento, qualcosa che è in superficie ma che è difficile

nominare e simbolizzare. Spesso, il tema che occupa più spazio nell’assetto interno

dell’adolescente, a partire da semplici stimoli, sgorga come se non aspettasse altro che una chiave

capace di aprire quella porta. Accogliere quello che emerge è il primo passo verso la costruzione di

un significato che già di per sé è rassicurante. Far uscire un mondo solo vissuto ma non colto nella

sua importanza e unicità è il primo passo verso il riappropriarsene. È l’altro che vede e riconosce

qualcosa che in questo modo esiste. È il lasciarsi coinvolgere, trasportare nel come sono io che

risulta essere terapeutico, nel fare in modo che l’ora in cui settimanalmente o bisettimanalmente ci

si incontra sia permeata dal permesso di essere se stessi. Solo dopo aver fatto uscire e srotolare ciò

che ogni adolescente è e vorrebbe essere, si può pensare a come portare avanti i propri obiettivi, ma

non prima di aver trovato frammenti di sé. Il lavoro sulle emozioni permette, in questo senso, di

discernere il Sé e favorisce la costruzione del senso di identità. La relazione diventa il luogo

simbolico dell’espressione del Sé: il luogo degli affetti all’interno del quale il Sé diventa

protagonista. Mano a mano che il mondo emotivo si dispiega, esso prende una forma e l’identità si

delinea in forme specifiche e singolari, diverse da individuo a individuo.

È qui che vediamo accendersi il desiderio, è in quei momenti che l’ansia si placa e non c’è più

bisogno di nascondersi. Il mondo interno dà colore all’ora terapeutica che diventa il luogo e il

tempo in cui liberamente poter fare prove di identità, in cui si può vedere insieme chi è e chi vuol

essere quell’adolescente.

D’altra parte, è da qui che nasce la relazione ed è dalla relazione che si dispiega il Sé nei suoi

aspetti identitari. Spesso non è importante “che tipo di persona sono”, ma cosa mi piace e cosa

appassiona proprio me. È qui che la sintonizzazione (Stern, 2005) del terapeuta sul mondo interno

del paziente diventa il ponte verso la regolazione emotiva (Hill, 2015) e la riduzione dell’ansia

(regolazione primaria).

È solo all’interno di una relazione terapeutica solida che l’adolescente può correre il rischio di

cercare se stesso e di cominciare ad usare il proprio mondo emotivo come bussola, necessaria ad

orientarsi nelle scelte grandi e piccole che deve affrontare quotidianamente, non senza difficoltà,

arresti, ritorni e nuove, sofferte conquiste.

L’adolescenza è una lunga e complessa tappa evolutiva in cui l’individuo è impegnato in un

percorso di crescita che, attraverso la differenziazione e la separazione dai vecchi modelli di

identificazione dell’infanzia, lo porterà alla conquista dell’autonomia e dell’identità.

Dal punto di vista cronologico, secondo la concezione maturata negli ultimi decenni dagli psicologi

sociali, questa fase del ciclo vitale terminerebbe con il raggiungimento della maggiore età

(Palmonari, 2011), ma, di fatto, risulta piuttosto difficile individuarne la fine.

Mentre sono abbastanza identificabili gli eventi che ne segnano l’inizio, vale a dire i cambiamenti

fisici che sono espressione della pubertà, collocabili dai 9-10 anni ai 13-14 anni, non è altrettanto

chiaro quali siano i fattori che possono segnalarne la fine. Di solito, per indicare il termine di questa

fase della vita, si fa riferimento a fattori di natura sociale, quali l’emergere dell’autonomia e del

livello di responsabilità con cui l’individuo si rapporta alla realtà. La grande instabilità della nostra

realtà sociale e il ritardo, rispetto ai decenni passati, con cui si raggiungono l’autonomia finanziaria

e affettiva, fanno sì che l’adolescenza si prolunghi ben oltre il raggiungimento della maggiore età.

In tal senso, l’organizzazione Mondiale della Sanità adotta una definizione temporale che fa

corrispondere questa fase con il secondo decennio della vita.

Dal punto di vista della fenomenologia, tradizionalmente, lo studio scientifico della

psicologia dell’adolescenza viene fatto risalire all’opera di Stanley Hall (1904) che ha descritto

questa fase della vita come orientata introspettivamente e segnata da aspetti di drammaticità. Nelle

sue teorizzazioni, l’adolescenza è una fase di storm and stress, caratterizzata da tempeste

emozionali, da innamoramenti irrazionali, da prese di posizione estreme, dalla fiducia smisurata

nelle proprie forze e dalla disperazione per i propri limiti, dai continui conflitti con i propri genitori

e dalla propensione al rischio.

Tale idea “romantica” dell’adolescente è ancora oggi piuttosto diffusa e riportata in molte

pubblicazioni di carattere divulgativo, pur trattandosi, in realtà, di un’immagine ancorata ad un

preciso momento storico e culturale, caratterizzato dal passaggio, sia negli Stati Uniti che in

Europa, da una società agricola ad una società industriale che, attraverso la creazione di surplus

nella produzione, aveva reso possibile a milioni di teenager di rimanere lontani dal mercato del

lavoro per un maggior numero di anni rispetto al passato.

Numerose ricerche successive, portate avanti a partire dagli anni ‘70 e basate

sull’osservazione di adolescenti appartenenti ad un popolazione “non clinica”, hanno descritto,

tuttavia, un’adolescenza non necessariamente contrassegnata da sconvolgimenti problematici.

Da un modello di osservazione tradizionale segnato da profonde crisi di valori e significati,

si è passati, in effetti, a concepire un’adolescenza contrassegnata da una molteplicità di compiti

evolutivi, da “piccole crisi” da superare per progredire lungo lo sviluppo (Coleman, 1990; Brubaker

& Cooper, 2000; Bosma & Kunnen, 2001).

Per quanto riguarda la situazione odierna, va detto che, rispetto alle descrizioni

dell’adolescente come “eroe maledetto”, ricerche recenti suggeriscono un’immagine molto meno

turbolenta e meno drammatica e attribuiscono minore importanza al conflitto intergenerazionale

(Gambini, 2011).

Di fatto, oggi, come clinici, raramente ci ritroviamo a trattare casi di adolescenti ribelli, siamo

piuttosto avvezzi ad incontrare ragazzi ritirati nelle pareti domestiche (Spiniello, Piotti & Comazzi,

2016, Lancini 2015), iperconnessi (Lancini, 2019), fragili e spavaldi (Pietropolli Charmet, 2008) o

ragazzi che agiscono la ribellione in una forma che assume i caratteri dell’autodistruttività in cui a

pagare è il corpo martirizzato e ripudiato (Nicolò & Ruggiero, 2016).

Osserviamo adolescenti irretiti all’interno di relazioni familiari simbiotiche dalle quali trovano

difficile separarsi e differenziarsi; sebbene la spinta a farlo ci sia, talvolta è descritta come non

necessaria e, come è possibile scoprire durante il lavoro clinico, è sentita come molto rischiosa.

Uscire dalle identificazioni infantili risulta difficile e la sensazione può essere quella di non poter

restare ma neanche partire. Ma c’è tutto un mondo nascosto, di pensieri, di idee, di desideri, di

interessi che spesso rimane sommerso, indeciso, dubbioso sul diritto e la decenza di venire alla luce

ed essere espresso. Ed è quando la tenda si scosta e scopre questa realtà che, come clinici, abbiamo

delle chance per lavorare bene con quello specifico adolescente.

All’interno della letteratura sull’adolescenza, trova ampio spazio l’analisi del compito evolutivo

centrale di questa fase della vita, vale a dire la costruzione dell’identità, intesa come processo

psichico complesso, frutto dell’interdipendenza di fattori individuali, relazionali e sociali (Erikson,

1968, 1974).

Sebbene anche i bambini abbiano una percezione di sé, l’emergere dell’identità è l’essenza e il

centro dell’adolescenza che, se vista in questa ottica, è un’età fortemente creativa e ricca di

opportunità, in cui l’individuo crea e inventa se stesso.

Al contempo, si tratta di una lunga fase della vita contrassegnata da instabilità e incertezza, in cui si

ha la pressoché costante sensazione di essere osservati e giudicati. È anche il momento in cui

possono manifestarsi una serie di sintomi clinici che, se trascurati e non presi in considerazione,

possono evolvere in psicopatologia.

Come clinici, quando un adolescente presenta un disturbo d’ansia, siamo interessati ad individuare

il significato sottostante le manifestazione che assume e lo facciamo attraverso un lavoro di

identificazione e simbolizzazione delle emozioni che porta ad incontrare, riscrivere il copione e a

prendere nuove e importanti decisioni (Berne, 1972; Cornell, 1988; Summers & Tudor, 2000, 2014;

Widdowson, 2008; Barrow, 2014; Levin, 2015).

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