Le ricerche neuroscientifiche degli ultimi decenni forniscono un’informazione molto
precisa: il cervello degli adolescenti, contrariamente a quanto si pensava in passato, è diverso da
quello dei bambini e da quello degli adulti e presenta una grande plasticità (Blakemore, 2018;
Steinberg, 2017). Fino ad alcuni decenni fa, la neurologia riteneva che il cervello, a partire dai 12
anni, rimanesse immutabile per il resto della vita. Oggi sappiamo che continua a svilupparsi tra i 13
e i 19 anni e anche dopo i 20 (Blakemore, 2018), senza peraltro perdere mai la sua plasticità, cioè la
sua capacità di cambiare in rapporto all’esperienza (Edelman, 1991; Doidge, 2007, 2015). Sebbene
raggiunga la sua dimensione massima intorni ai dieci anni, per tutta l’adolescenza continua a
riorganizzarsi e a mantenere una grande malleabilità, paragonabile a quella relativa ai primi tre anni
di vita (Steinberg, 2017). La scoperta della grande plasticità cerebrale in adolescenza ha grandi
implicazioni nel modo in cui genitori, insegnanti, educatori e psicologi operano con i giovani.
Lawrence Steinberg (2017) della Temple University in Pennsylvania, uno dei più autorevoli
studiosi dell’adolescenza, ha affermato che la grande sensibilità del cervello adolescente
all’ambiente rende necessario essere molto premurosi e attenti alle esperienze che offriamo agli
adolescenti. In una sua importante ricerca (Steinberg et al., 2017), che ha coinvolto 5000 giovani
volontari di 11 paesi diversi 1 , si è focalizzata sulla ricerca di emozioni in esperienze nuove da parte
degli adolescenti e sulla loro capacità di autoregolazione. Lo studio ha coinvolto ragazzi di un’età
compresa fra gli 11 e i 30 anni ai quali è stato chiesto di svolgere una serie di prove sperimentali e
di rispondere a dei questionari, incentrati sul desiderio di provare emozioni nuove, collegate anche
ad esperienze rischiose e sull’autoregolazione, vale a dire la capacità di controllarsi e di prendere
delle decisioni. Seppure con differenze all’interno dei diversi Paesi, è stato possibile individuare
delle somiglianze nello sviluppo delle due dimensioni indagate. La ricerca di emozioni andava
incontro ad un incremento a partire dai 10 anni, con un picco a 19 anni, per subire un calo dai 20
anni in poi. Per quanto riguarda l’autoregolazione, aumentava in modo stabile dai 10 fino a oltre i
20 anni, dopodiché si stabilizzava.
Steinbeck ha mostrato come lo sviluppo cerebrale in questa fase della vita sia, per certi
aspetti, contraddittoria: se da un lato la corteccia prefrontale che media la riflessione, il senso di sé,
la capacità di “pensare il pensiero” e altre funzioni superiori, conosce un grande sviluppo, al
contempo, le strutture limbiche sottocorticali, che mediano i comportamenti impulsivi, sono più
attive rispetto a tutte le altre fasi della vita (Modello dei Sistemi Duali, Steinbeck, 2017). La
sensibilità delle strutture sottocorticali può spiegare la maggiore propensione al rischio e agli acting
1 Cina, Colombia, Cipro, India, Italia, Giordania, Kenya, Filippine, Svezia, Thailandia e Stati Uniti
out e il forte sviluppo della corteccia prefrontale porta invece a pensare che l’adolescenza sia
un’occasione importante da cogliere per aiutare l’individuo a cambiare.
In questa fase della vita, dal pensiero concreto che aveva caratterizzato gli anni della scuola
primaria, l’adolescente diventa capace di riflettere sui propri pensieri, sulle cause delle sue azioni e
sulla possibilità di mettere in atto comportamenti diversi (Siegel, 2014).
In altre parole, si sviluppa e al contempo può essere sviluppata la capacità di pensare i propri
sentimenti, i propri pensieri, le proprie emozioni e rappresentazioni, aspetti fondamentali della
costruzione dell’identità, quindi del senso di chi si è, differenziato dall’altro.
Identificazione delle emozioni e identità
Il lavoro con gli adolescenti che presentano un disturbo ansioso si configura, dunque, come
un processo di regolazione emotiva che ha la funzione di lenire e modulare gli stati emotivi
disregolati, identificati come ansia. Si tratta di un viaggio complesso durante il quale il paziente e il
terapeuta incontrano il copione, con i messaggi ingiuntivi e controingiuntivi, trovano un senso di
insicurezza che, talvolta, appare ontologico, profondamente legato al permesso di esistere e di
essere come si è…
Talvolta, soprattutto nelle fasi iniziali del lavoro con l’adolescente, possono essere d’aiuto esercizi
strutturati che favoriscono la mentalizzazione (Fonagy et al., 2002; Clarkin, Yeomans & Kernberg,
2011) e l’alfabetizzazione con le proprie emozioni, spesso esuberanti e dalle tinte forti (regolazione
secondaria).
Di seguito, un esempio di esercizio strutturato che può essere svolto nella terapia con gli
adolescenti. Altri esercizi sono consultabili in Appendice.
• Ripensa all’ultima giornata trascorsa
• Chiudi gli occhi e torna lì
• Soffermati su un momento che colpisce di più la tua attenzione
• È piacevole o spiacevole?
• Domandati cosa hai provato in quel momento, facendo riferimento alle emozioni di base:
rabbia, paura, tristezza, gioia, disgusto, sorpresa…
• Dai un nome a ciò che hai sentito
• Ascolta anche i pensieri che hai fatto e le sensazioni corporee che hai provato
• Quale significato puoi dare a ciò che hai provato e a ciò che hai pensato?
(Piermartini, 2018)
Lo scopo di questo semplice esercizio, che può essere proposto anche in forma scritta, è quello di
favorire un allenamento della capacità di dare un nome a ciò che sentiamo. Nella storia dell’uomo,
il dare un nome alle cose, ai fenomeni, ha rappresentato un passo evolutivo fondamentale: ciò che è
noto, ciò che è nominato fa meno paura di ciò che non conosciamo affatto.
Gli esercizi pratici assolvono una pluralità di funzioni: forniscono struttura e direzione,
contribuiscono a rafforzare le capacità mentali, ad aumentare la flessibilità del pensiero e a stabilire
un contatto con il proprio mondo interno. Rappresentano un lasciapassare che ci permette di entrare
nel mondo dell’adolescente e a lui di farsi gradualmente vedere. Spesso, attraverso il lavoro
strutturato, il mondo emotivo si fa più accessibile e comunicabile. L’adolescente è meno esposto ad
uno sguardo intrusivo e invadente che l’adulto-terapeuta immette nel suo mondo interno. Il suo
bisogno, infatti, è sì quello di lenire l’ansia e stare meglio, ma anche quello di crescere e
differenziarsi mettendo utili e necessari confini.
Gli esercizi rappresentano una riflessione guidata passo dopo passo per facilitare la riflessione e la
metariflessione. La finalità è quella di favorire il contatto con se stessi, “trovando” le emozioni di
base che si agitano nel mare dell’ansia e che, una volta identificate, possono diventare la bussola
attraverso la quale orientarsi nel marasma delle scelte e delle possibilità.
L’identificazione delle emozioni favorisce e rende possibile l’autoconoscenza dal momento che
sapere ciò che si sente è parte della conoscenza di sé (Jurist, 2018).
L’etimologia della parola “identificare” deriva dal latino idem-fieri, divenire il medesimo,
considerarsi uguale (Jurist, 2018) e, oltre all’assegnazione di un nome, comporta un senso di
immedesimazione e di curiosità che può esitare nell’esplorazione. In tal senso, è utile notare che
l’etimologia del termine “identificare” è connessa al termine “identità” (Jurist, 2018).
Prove di identità e relazione terapeutica
Man mano che l’adolescente discrimina e nomina le emozioni, scopre anche desideri,
bisogni e il lavoro fatto insieme diventa una rassicurante conoscenza di sé.
Talvolta, il lavoro di identificazione delle emozioni diventa l’occasione per parlare di ciò che ha più
evidenza nel mondo interno in quel momento, qualcosa che è in superficie ma che è difficile
nominare e simbolizzare. Spesso, il tema che occupa più spazio nell’assetto interno
dell’adolescente, a partire da semplici stimoli, sgorga come se non aspettasse altro che una chiave
capace di aprire quella porta. Accogliere quello che emerge è il primo passo verso la costruzione di
un significato che già di per sé è rassicurante. Far uscire un mondo solo vissuto ma non colto nella
sua importanza e unicità è il primo passo verso il riappropriarsene. È l’altro che vede e riconosce
qualcosa che in questo modo esiste. È il lasciarsi coinvolgere, trasportare nel come sono io che
risulta essere terapeutico, nel fare in modo che l’ora in cui settimanalmente o bisettimanalmente ci
si incontra sia permeata dal permesso di essere se stessi. Solo dopo aver fatto uscire e srotolare ciò
che ogni adolescente è e vorrebbe essere, si può pensare a come portare avanti i propri obiettivi, ma
non prima di aver trovato frammenti di sé. Il lavoro sulle emozioni permette, in questo senso, di
discernere il Sé e favorisce la costruzione del senso di identità. La relazione diventa il luogo
simbolico dell’espressione del Sé: il luogo degli affetti all’interno del quale il Sé diventa
protagonista. Mano a mano che il mondo emotivo si dispiega, esso prende una forma e l’identità si
delinea in forme specifiche e singolari, diverse da individuo a individuo.
È qui che vediamo accendersi il desiderio, è in quei momenti che l’ansia si placa e non c’è più
bisogno di nascondersi. Il mondo interno dà colore all’ora terapeutica che diventa il luogo e il
tempo in cui liberamente poter fare prove di identità, in cui si può vedere insieme chi è e chi vuol
essere quell’adolescente.
D’altra parte, è da qui che nasce la relazione ed è dalla relazione che si dispiega il Sé nei suoi
aspetti identitari. Spesso non è importante “che tipo di persona sono”, ma cosa mi piace e cosa
appassiona proprio me. È qui che la sintonizzazione (Stern, 2005) del terapeuta sul mondo interno
del paziente diventa il ponte verso la regolazione emotiva (Hill, 2015) e la riduzione dell’ansia
(regolazione primaria).
È solo all’interno di una relazione terapeutica solida che l’adolescente può correre il rischio di
cercare se stesso e di cominciare ad usare il proprio mondo emotivo come bussola, necessaria ad
orientarsi nelle scelte grandi e piccole che deve affrontare quotidianamente, non senza difficoltà,
arresti, ritorni e nuove, sofferte conquiste.
L’adolescenza è una lunga e complessa tappa evolutiva in cui l’individuo è impegnato in un
percorso di crescita che, attraverso la differenziazione e la separazione dai vecchi modelli di
identificazione dell’infanzia, lo porterà alla conquista dell’autonomia e dell’identità.
Dal punto di vista cronologico, secondo la concezione maturata negli ultimi decenni dagli psicologi
sociali, questa fase del ciclo vitale terminerebbe con il raggiungimento della maggiore età
(Palmonari, 2011), ma, di fatto, risulta piuttosto difficile individuarne la fine.
Mentre sono abbastanza identificabili gli eventi che ne segnano l’inizio, vale a dire i cambiamenti
fisici che sono espressione della pubertà, collocabili dai 9-10 anni ai 13-14 anni, non è altrettanto
chiaro quali siano i fattori che possono segnalarne la fine. Di solito, per indicare il termine di questa
fase della vita, si fa riferimento a fattori di natura sociale, quali l’emergere dell’autonomia e del
livello di responsabilità con cui l’individuo si rapporta alla realtà. La grande instabilità della nostra
realtà sociale e il ritardo, rispetto ai decenni passati, con cui si raggiungono l’autonomia finanziaria
e affettiva, fanno sì che l’adolescenza si prolunghi ben oltre il raggiungimento della maggiore età.
In tal senso, l’organizzazione Mondiale della Sanità adotta una definizione temporale che fa
corrispondere questa fase con il secondo decennio della vita.
Dal punto di vista della fenomenologia, tradizionalmente, lo studio scientifico della
psicologia dell’adolescenza viene fatto risalire all’opera di Stanley Hall (1904) che ha descritto
questa fase della vita come orientata introspettivamente e segnata da aspetti di drammaticità. Nelle
sue teorizzazioni, l’adolescenza è una fase di storm and stress, caratterizzata da tempeste
emozionali, da innamoramenti irrazionali, da prese di posizione estreme, dalla fiducia smisurata
nelle proprie forze e dalla disperazione per i propri limiti, dai continui conflitti con i propri genitori
e dalla propensione al rischio.
Tale idea “romantica” dell’adolescente è ancora oggi piuttosto diffusa e riportata in molte
pubblicazioni di carattere divulgativo, pur trattandosi, in realtà, di un’immagine ancorata ad un
preciso momento storico e culturale, caratterizzato dal passaggio, sia negli Stati Uniti che in
Europa, da una società agricola ad una società industriale che, attraverso la creazione di surplus
nella produzione, aveva reso possibile a milioni di teenager di rimanere lontani dal mercato del
lavoro per un maggior numero di anni rispetto al passato.
Numerose ricerche successive, portate avanti a partire dagli anni ‘70 e basate
sull’osservazione di adolescenti appartenenti ad un popolazione “non clinica”, hanno descritto,
tuttavia, un’adolescenza non necessariamente contrassegnata da sconvolgimenti problematici.
Da un modello di osservazione tradizionale segnato da profonde crisi di valori e significati,
si è passati, in effetti, a concepire un’adolescenza contrassegnata da una molteplicità di compiti
evolutivi, da “piccole crisi” da superare per progredire lungo lo sviluppo (Coleman, 1990; Brubaker
& Cooper, 2000; Bosma & Kunnen, 2001).
Per quanto riguarda la situazione odierna, va detto che, rispetto alle descrizioni
dell’adolescente come “eroe maledetto”, ricerche recenti suggeriscono un’immagine molto meno
turbolenta e meno drammatica e attribuiscono minore importanza al conflitto intergenerazionale
(Gambini, 2011).
Di fatto, oggi, come clinici, raramente ci ritroviamo a trattare casi di adolescenti ribelli, siamo
piuttosto avvezzi ad incontrare ragazzi ritirati nelle pareti domestiche (Spiniello, Piotti & Comazzi,
2016, Lancini 2015), iperconnessi (Lancini, 2019), fragili e spavaldi (Pietropolli Charmet, 2008) o
ragazzi che agiscono la ribellione in una forma che assume i caratteri dell’autodistruttività in cui a
pagare è il corpo martirizzato e ripudiato (Nicolò & Ruggiero, 2016).
Osserviamo adolescenti irretiti all’interno di relazioni familiari simbiotiche dalle quali trovano
difficile separarsi e differenziarsi; sebbene la spinta a farlo ci sia, talvolta è descritta come non
necessaria e, come è possibile scoprire durante il lavoro clinico, è sentita come molto rischiosa.
Uscire dalle identificazioni infantili risulta difficile e la sensazione può essere quella di non poter
restare ma neanche partire. Ma c’è tutto un mondo nascosto, di pensieri, di idee, di desideri, di
interessi che spesso rimane sommerso, indeciso, dubbioso sul diritto e la decenza di venire alla luce
ed essere espresso. Ed è quando la tenda si scosta e scopre questa realtà che, come clinici, abbiamo
delle chance per lavorare bene con quello specifico adolescente.
All’interno della letteratura sull’adolescenza, trova ampio spazio l’analisi del compito evolutivo
centrale di questa fase della vita, vale a dire la costruzione dell’identità, intesa come processo
psichico complesso, frutto dell’interdipendenza di fattori individuali, relazionali e sociali (Erikson,
1968, 1974).
Sebbene anche i bambini abbiano una percezione di sé, l’emergere dell’identità è l’essenza e il
centro dell’adolescenza che, se vista in questa ottica, è un’età fortemente creativa e ricca di
opportunità, in cui l’individuo crea e inventa se stesso.
Al contempo, si tratta di una lunga fase della vita contrassegnata da instabilità e incertezza, in cui si
ha la pressoché costante sensazione di essere osservati e giudicati. È anche il momento in cui
possono manifestarsi una serie di sintomi clinici che, se trascurati e non presi in considerazione,
possono evolvere in psicopatologia.
Come clinici, quando un adolescente presenta un disturbo d’ansia, siamo interessati ad individuare
il significato sottostante le manifestazione che assume e lo facciamo attraverso un lavoro di
identificazione e simbolizzazione delle emozioni che porta ad incontrare, riscrivere il copione e a
prendere nuove e importanti decisioni (Berne, 1972; Cornell, 1988; Summers & Tudor, 2000, 2014;
Widdowson, 2008; Barrow, 2014; Levin, 2015).
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